Susan Faludi, nel suo Il sesso del terrore, riporta questo aneddoto: durante le settimane che seguirono l'attacco terroristico al World Trade Center si presentarono all'ospedale di Manhattan cinque magre adolescenti che non riuscivano a "ingoiare". Erano convinte che a seguito della distruzione delle torri si fossero depositate nelle loro gole delle cellule o dei resti umani, e questa convinzione - infondata, come risultava dalle analisi - impediva loro di mangiare. Le ragazze, scrive Faludi, "esprimevano istericamente ciò che tutti noi provavamo, ossia che la notizia era troppo dura da mandare giù": ciò che quel sintomo manifestava, in altri termini, era l'incapacità di "digerire" la catastrofe, di imporle un senso, e quindi anche di costruire intorno a essa una narrazione. Nonostante l'11 settembre sia l'oggetto di una serie ormai infinita di romanzi, memoir, film e serie televisive (per non parlare delle narrazioni ufficiali del potere, del governo o dei terroristi stessi), resta un qualcosa il cui senso sfugge, un disastro impossibile da integrare in una narrazione che lo riscatti dal trauma. Insomma: anche se l'11/9 è ormai un vero e proprio genere letterario, quando non direttamente un logo, un topos immediatamente riconoscibile e spendibile sul mercato dell'intrattenimento o della politica (penso ai film catastrofici o alla campagna per le primarie di Rudy Giuliani che aveva inglobato le torri gemelle fin nel simbolo sui volantini), rimane una lesione tutt'altro che superata.La vicenda raccontata di Faludi mi ha fatto tornare in mente l'ultimo romanzo di DeLillo, L'uomo che cade (il cui tema è, non a caso, l'impossibilità di narrare l'11 settembre), in cui riveste un ruolo centrale proprio l'immagine - disturbante e piuttosto macabra - della "scheggia biologica", un piccolo grumo di cellule del corpo del kamikaze che può andarsi a incistare nel corpo delle vittime sopravvissute. Nel romanzo di DeLillo questa sorta di contagio (più fantasmatico che reale) avveniva proprio nel "ground zero" del disastro, nel momento dell'impatto dell'aereo sul grattacielo, e segnava emotivamente il protagonista tanto da renderlo irriconoscibile ai suoi cari. Un qualcosa non dissimile dall'Invasione degli ultracorpi, quell'allegoria fantascientifica che in ogni epoca della storia americana recente è servita per dare un (ultra)corpo riconoscibile alle paure del corpo sociale: i comunisti negli anni cinquanta, il terrorismo oggi.Ricordo ora questi episodi perché con i traumi e il loro eventuale superamento, il corpo e gli ultracorpi, il modo in cui la mente costruisce e disfa le storie, ha a che fare anche il nuovo, splendido romanzo di Richard Powers, Il fabbricante di eco. Non con l'11 settembre, come si vedrà: non direttamente almeno, dato che di fatto questo è il romanzo (insieme al citato DeLillo, più di DeLillo) che più di tutti riesce a fare i conti con l'evento e con ciò che ha rappresentato.Mark Schluter è "il tipico americano ventenne nato in uno qualsiasi degli immensi Stati vuoti", birra, pick-up truccati, estenuanti sessioni a World of Warcraft. Un "redneck", come si chiama lo stereotipo del giovane maschio bianco di campagna, scarsamente scolarizzato, di basso livello socioeconomico e politicamente conservatore: un "burino stellestrisce" si potrebbe dire se non fosse un fenomeno così vasto e complesso da aver dato vita a una vera e propria cultura. Il cuore del paese. O almeno così spera chi ha scelto Sarah Palin - che di quella cultura è espressione - come candidata vicepresidente per i repubblicani. Comunque tutto si può dire di Mark tranne che non sappia guidare: allora perché una sera d'inverno del 2002 - alla radio le news dall'Afghanistan - in mezzo al nulla di una strada dritta come un rasoio, perde il controllo del mezzo e ha un incidente quasi da perderci la vita? La risposta a questa domanda è il mistero che, sottotraccia, si dipana per tutto il romanzo e la cui soluzione giungerà con un inaspettato colpo di scena. Non è certo questa vaga suspense a tenere desta l'attenzione del lettore (che comunque è messa a dura prova: non è un romanzo facile o indulgente). Mark sopravvive, ma il danno che riporta è neurologico: da quando esce dal coma si rifiuta di riconoscere sua sorella Karin, l'accusa di essere un sosia, un replicante (come i "baccelloni" degli Ultracorpi), pedina di un più vasto complotto atto a sostituire le persone a lui care con dei freddi simulacri. "Non so nemmeno da dove salti fuori", dice alla sorella, "per quanto ne so potrebbero averti paracadutato qui quei maledetti terroristi arabi, le forze speciali".Soffre della sindrome di Capgras, che "lo induce a credere che i propri cari siano stati sostituiti da robot, doppi o alieni che sembrano veri. Tutti gli altri vengono identificati correttamente. Il viso della persona cara trova risposta nella memoria, ma non nei sentimenti": manca la conferma emotiva al riconoscimento razionale e così la mente si inventa assurde spiegazione per colmare questa lacuna, per riparare all'assenza di un feed emotivo. "La logica si affida ai sentimenti", spiega il dottor Weber venuto dalla West Coast ad aiutare Karin. Weber è un neuropsichiatra che scrive testi divulgativi di grande successo (palesemente ispirato a Oliver Sacks e Vilayanur Ramachandran: in particolare quest'ultimo è autore di Che cosa sappiamo della mente, Mondadori, 2004, che sulla sindrome di Capgras si sofferma a lungo), affranto dal timore di sfruttare le vicende dei malati, i casi clinici che racconta, per farne storie, narrazioni a uso e consumo del pubblico (...la storia dell'uomo che scambiò sua moglie per una teiera: a chi allude è chiaro). Un personaggio molto umano, molto problematico, che sembra farsi carico delle stesse ansie del romanziere verso i suoi personaggi. Terzo protagonista, e forse più importante, è proprio Karin, sorella affettuosa e insicura (e, certo, essere disconosciuti dal proprio fratello non aiuta a coltivare fiducia in se stessi).La trama si dipana lentamente (c'entra qualcosa la speculazione edilizia sul vicino parco naturale) e si conclude con la presunta guarigione di Mark, che viene ambiguamente a coincidere con l'inizio dell'operazione Iraqi Freedom.Il fabbricante di eco è il perfetto esemplare del romanzo di idee. Mai mi era capitato di sottolineare tanto e così spesso un testo di finzione, di incontrare quasi a ogni pagina un'idea, un concetto, una riflessione, una scoperta. E non certo cose da poco: neuroscienza, natura del linguaggio, evoluzione, etologia, le forze misteriose e inumane che attraversano il tempo, la coscienza e gli ecosistemi. Ogni tanto questa mole di ambizioni e nozioni rischia di inceppare il ritmo della narrazione, e in effetti, da un punto di vista letterario, Il fabbricante è artisticamente meno riuscito del precedente Il tempo di una canzone (Mondadori, 2006; cfr. "L'Indice", 2007, n. 7). Eppure anche qui non solo si respira a pieni polmoni l'aria della grande letteratura (una gioia conosciuta con pochi altri scrittori oggi), ma si ritrova anche quella che forse è la cifra peculiare di Richard Powers: piegare conquiste intellettuali altissime (nei precedenti romanzi: la cibernetica, la teoria dei giochi, la fisica teorica) in un unico, coerente virtuoso e personalissimo disegno e, soprattutto, in una narrazione empatica, fortemente emotiva, a tratti quasi elegiaca. Come se fosse proprio questa empatia, questa emotività (sempre controllata, asciutta) a indicare una via di guarigione, a colmare quel gap tra identificazione razionale e riconoscimento emotivo che la sindrome di Capgras denuncia. Come a dire che questo è un romanzo sul trauma ma soprattutto sul sopravvivere al trauma e in qualche modo superarlo. Sul ripiegamento su di sé, sulla propria casa, la propria comunità: la grande ossessione della cultura statunitense degli ultimi otto anni. Sulla reazione violenta e paranoica all'aggressione che porta a respingere chi ci sta accanto, a indicarlo come nemico, a odiarlo. Sul trovare alieno il proprio stesso corpo, una massa sconosciuta e perturbante che non accettiamo più come nostra. Ma anche sulla guarigione, sulla convalescenza (lunga, dolorosa) e sul nostro modo di raccontare le storie, di costruire narrazioni e sistemi simbolici.A un certo punto il dottor Weber, guardando sua figlia davanti a un videogioco, le chiede: "'In che senso è meglio del vero ping-pong?' La stessa domanda ossessionava il suo lavoro. Cosa aveva la specie umana per voler salvare il simbolo e sbarazzarsi di ciò che rappresentava?". Chiedersi perché il simbolo vince sul reale al punto che l'umano non può fare a meno di esso per definirsi tale, e delle narrazioni che dal simbolo sono rese possibili, è il modo migliore per digerire quel collasso del simbolico che è stato, e continua a essere, l'11 settembre. Francesco Guglieri
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