Ecco radunata tutta insieme la fortunatissima serie delle vicende di Jo March, l'eroina che Louise May Alcott costruì nel 1868 attingendo, per buona parte, a materiale autobiografico corretto con una buona dose di autoironia. Little Women, è noto, ottenne un successo immediato talmente imprevisto e capillare, da costringere Alcott, sempre alla ricerca di denaro, a scriverne l'anno successivo, il 1869, il seguito. Caso editoriale e umano tra i più studiati, in anni recenti, in particolare, dal nutrito gruppo della critica femminista, Louisa May Alcott si presta a letture ambigue, consentendo certi carotaggicritici e psicoanalitici che la ammantano di mistero e ne fanno il centro di proiezioni a tratti francamente imbarazzanti. In ogni caso è vero che la sua formazione fu condotta all'insegna dell'eccezionalità: vicina per via del padre Amos Bronson Alcott, pedagogo e scrittore, alla filosofia trascendentalista di Emerson e pervasa dal naturalismo di Thoreau, Louisa May Alcott crebbe in un ambiente a suo modo rivoluzionario. Ancora legata per gusto e maniere al costume vittoriano, la famiglia Alcott fu però attraversata da difficoltà materiali e spirituali. L'estrema povertà, le fughe del padre, il rapporto ambiguo con la madre concorsero a costruire una personalità assai mista. Tra convenzionalità e afflato libertario, tra desiderio d'amore e pulsione solitaria, tra spontaneismo e costrizione, la vocazione più forte fu quella per la letteratura.Nella lavorata introduzione alla nuova raccolta einaudiana (la prima dopo tante edizioni che raccolga in un solo volume i quattro libri integrali: Piccole donne, Piccole donne crescono, Piccoli uomini, I ragazzi di Jo) Daniela Daniele ripercorre le tappe della gestazione di Little women ponendo l'accento soprattutto sugli aspetti di genere e postulando la tesi della doppiaAlcott, ovvero della scrittrice dalla doppia anima, l'anima nera che emergerebbe dai romanzi gotici dati alle stampe sotto pseudonimo i cui titoli, ancor oggi nonostante l'acribia delle biografe, rimarrebbero sconosciuti. Se da un lato Daniele fa notare, sulla scorta delle analisi della critica americana Jane Tompkins (autrice fra l'altro di un recente saggio dedicato ad Alcott intitolato, non a caso, Behind a mask), che in età vittoriana "una nozione meno egocentrica di autorialità (...) non pareva richiedere un profilo stilisticamente coerente come la modernità ci ha abituati a richiedere", dall'altro però non esita ad adottare le forme del transgender quando dichiara "varrebbe la pena di interrogarsi in chiave dichiaratamente queer sul valore simbolico della figura del tomboy alcottiano per comprendere il significato profondamente anticonformista della 'piccola donna' che voleva essere un ragazzo", arrivando a definire Jo "un butch dal fascino ermafrodito". Insomma, forse sarebbe opportuna una griglia interpretativa meno indirizzata, ma resta, più che mai godibile, la scrittura di Louisa May Alcott che ha saputo, con un formidabile spirito pratico, raccontare i principali passaggi della vita, donna o uomo che volesse essere. Usando tutti i possibili registri del sentimento, fossero pure le lacrime. Manca a quest'edizione una cronologia delle opere e si avverte una certa assenza di attenzione filologica. Infine, sarebbe stato divertente raccontare la storia delle edizioni di Piccole donne che in Italia hanno circolato negli anni in forme mutilate e semplificate presso editori di matrice cattolica, come poteva essere emblematico ripercorrere il rapporto tra Alcott e il cinema, che ne ha tratto capolavori e vere porcherie. Camilla Valletti
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