Non so quanti, dei molti che lo compreranno, riusciranno ad arrivare in fondo al nuovo romanzo di Umberto Eco. Io ci sono riuscito facendomi largo a prezzo di non piccoli sforzi attraverso tutta la sua prima e seconda parte e percorrendo davvero piacevolmente solo la terza. Oltretutto, le molte e ampie recensioni hanno già tolto e soddisfatto la consueta curiosità di vedere come va a finire la storia (risaprà chi è e chi è stato Yambo, il narratore smemorato?; chi si nasconde dietro la regina Loana?: che cosa sia e dove si senta la sua "misteriosa fiamma" lo si scopre già a p. 69, con chiosa a p. 250). Restano dunque, per arrampicarsi sulle lunghe 450 pagine, l'attesa delle classiche battute da "Eco" (ce ne sono poche, del genere: "Garcia, l'Orca"); il sollievo delle divertenti figure che ne fanno un romanzo illustrato (zampata di genio); la lunga riflessione sulla memoria individuale e su quella collettiva, rappresentata, quest'ultima, dalla "carta", dai libri ritrovati e dalle citazioni introiettate (il protagonista è un libraio antiquario gremito di rimasugli scolastici e di dotte letture), dai fumetti e dai giornali (riscoperti nel classico solaio di casa); infine, nell'ultima sezione, il gratificante "ritorno" a una riappropriazione, da parte del narratore, dei propri ricordi e, con essa, a una scrittura narrativa più tesa e coinvolgente.Il piatto forte del romanzo è, per estensione e impegno, probabilmente la scommessa intellettuale di ricostruire un "io" attraverso la sua cultura, le sue informazioni e conoscenze. Si tratta di una variazione postsemiologica sul dubbio pirandelliano: chi è "io"? È quello che disegnano, descrivono gli altri o quello che lui crede di essere? La risposta di Eco è che chi è non si sa (come non lo sa Yambo per un bel pezzo), ma che si può provare a saperne qualcosa cercando in ciò che "io" condivide con gli altri e che in semiologia si sintetizza nella cosiddetta "enciclopedia", nel sapere partecipato (persino inconsapevolmente), nel mare di conoscenze generazionali, nazionali e sociali che ha in comune col suo tempo e di cui sono testimonianza e veicolo libri e riviste, giornalini e poesie, vocabolari e quotidiani, memorie storiche e cronache d'epoca.Autorevoli recensori (Asor Rosa) hanno insistito molto sulla componente autobiografica del libro, così scoperta nell'ambientazione cronologica e geografica (Monferrato negli anni trenta-cinquanta), e hanno proposto di leggerlo come un ritorno dell'autore a se stesso, alla conoscenza e nostalgia di sé. Ma il forte tratto autobiografico, che dovrebbe fungere da traliccio e vettore (palpabile, concreto, affettuoso) del discorso filosofico sulla (in)conoscibilità del "noumeno" (Cotroneo), stenta a convincere quale materia narrativa, perché spesso inciampa e zoppica nei luoghi comuni. Il protagonista "signorino" di campagna, il suo sorriso irresistibile, la casa grande, la serva fedele declinano per gran parte di questo libro una variante scontata dei soliti autobiografismi d'appendice, tipici soprattutto dei casi in cui il soggetto (auto)narrante è un provinciale di successo.Il fatto è che l'autobiografia non funziona bene sino a quando deve limitarsi a fare da supporto a un rinnovato (e un po' pedante) Diario minimo che ripercorre la storia di un segmento di Novecento attraverso libri, immagini, eventi, citazioni che sono stati di tutti (più o meno). Riprende invece vigore e senso nella terza e ultima parte (i nostoi), quando il narratore recupera la memoria personale e con essa racconta eventi drammatici della Resistenza (il culmine narrativo del romanzo è la corsa del protagonista e dei suoi amici nel Vallone immerso nella nebbia, con due tedeschi prigionieri, mentre altri tedeschi e i fascisti li braccano) e ricostruisce appuntamenti essenziali della sua personale formazione sentimentale e sessuale, spirituale e politica. Qui è direttamente la storia collettiva, e non la sua rappresentazione (para)letteraria e fumettistica, a dialogare con la vicenda privata (nell'episodio si arricchisce di una ragione in più l'onnipresente tema della nebbia, vero leitmotiv dell'opera), in pagine piene di densità e calore, che chiedono trepida partecipazione al lettore sino ad allora distratto e affaticato.Peccato che l'ultimo capitolo tenti la sintesi delle due memorie (e quindi della seconda e della terza parte) cercando di riscrivere pirotecnicamente l'apice di quella più intima (l'amore per la bella Lila) nel linguaggio di quella più pubblica, in una sorta di varietà televisivo in cui l'"unico e irripetibile" (il grande amore, il suo volto, il suo destino) si presenta con il corteggio del "tutto e seriale" (personaggi celebri di carta e di spettacolo). Ne risulta un festival-apocalisse eccessivo e pesante, in cui si perde (senza averne in cambio piacevole ironia) quel filo di malinconia e tenerezza che i tormenti dell'amore e della storia avevano finalmente immesso nel romanzo, dando alla sua vocazione autobiografica una plausibilità troppo spesso, altrove, latitante o assente, insidiata da diverse motivazioni di scrittura, che col racconto non sembrano essersi felicemente fuse.
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